MODENA. Luciano “Lucio” Bruni, modenese, è una figura piuttosto atipica nel panorama musicale italiano. È un artista molto conosciuto, soprattutto in Emilia e nel resto del nord Italia, per la sua capacità di non mollare mai e, anzi, di restituire, davanti alla tastiera del suo pianoforte, tutte le emozioni che lo attraversano. Lui stesso spiega di avere sempre bene in mente proprio questo concetto: trasmettere le emozioni, soprattutto se positive.
Bruni, che vive in zona Pomposa in pieno centro storico, fa musica ormai da oltre quarant’anni sempre con questa finalità. Ha suonato nei luoghi storici della musica modenese, a partire dallo storico circolo Wienna dal quale sono partiti gli altrettanto importanti “cortili” musicali sotto la Ghirlandina, terminati nei primissimi anni Novanta.
Ma Lucio Bruni, che saltuariamente scrive anche musica e forma allievi, ha suonato a Modena un po’ dappertutto: negli ultimi quindici anni al Caffè Concerto di piazza Grande, alla Tenda di viale Molza e soprattutto al “tempio” del jazz modenese Pernilla Music Bar (ex Contrada della scimmia). Bruni, dunque, è un pianista che ha vissuto a pieno la scena musicale della sua città seguendone, passo passo, anche l’evoluzione.
La sua carriera, dopo essersi avvicinato alla musica fin da bambino e aver fatto studi classici per poi appassionarsi al jazz, lo ha visto collaborare con musicisti modenesi e non solo, all'interno dei più svariati contesti e generi musicali. Ha lavorato con Ivan Valentini, Andrea Burani, Stefano Cappa, Marco Rebeschi, Gianni Nicolini, Lara Luppi, Luciano Galloni e Lucio Caliendo, solo per citarne alcuni.Bruni, ci racconti com’è nata la sua passione per la musica e il jazz soprattutto.
«Ho iniziato a suonare da bambino, scegliendo da subito il pianoforte. Avevo circa 9 anni, ma già da tempo andavo a lezione di solfeggio da un violinista. Poi la vera e propria passione jazzistica è sbocciata a 13-14 anni».
Fu amore a prima vista?
«Assolutamente sì, fu grazie a due pianisti dell’epoca che mi introdussero alla bossa nova. Ricordo che suonavamo continuamente e, praticamente, da allora, non ho mai smesso; ero stupefatto, iniziai a leggere e studiare e finalmente capii».
A Modena, nel nord Italia negli anni ’70 il jazz era diffuso?
«No se ne sapeva pochissimo, si conosceva Louis Armstrong e non si andava quasi oltre anche se poi non mancavano i primi gruppi sperimentali che eseguivano free jazz».
Aveva una guida all’epoca?
«Non faccio torto a nessuno se ricordo una persona che purtroppo da poco non c’è più come Gianni Nicolini, tanti gli devono molto. E io devo tanto anche a Mario Tacchini, estremamente intelligenti e pieni di idee innovative».
Suonaste insieme?
«Con Nicolini formammo un piccolo gruppo chiamato Euforia e andammo, giovanissimi, alla Biennale jazz di Bologna. Suonavamo ogni giorno. Mi dedicavo anche al pop e considero, ad esempio, Lucio Battisti una sorta di divinità laica. Per il pop c’era Enrico Lazzarini, un grande contrabbassista e chitarrista».
Euforia fu il primo gruppo?
«No, del primissimo non ricordo il nome, ma chi c’era: Mario Parisini, Massimo Ori e ricordo anche che ci sembrava tutto un sogno».
Perché?
«Eravamo tutti giovani e appassionati, anche se in quella primissima formazione credo che facemmo sì tante prove e un solo unico concerto. Comunque ci divertiva molto lo stare insieme, provare e crescere. E poi stavamo alzati di notte. Insomma era una bella vita, entusiasmante».
Fino a quando l’ha fatta questa vita, lei che riuniva tanti giovani musicisti nella zona di via Sigonio?
«Fino a circa 40 anni ho praticamente sempre vissuto di notte, parlando e suonando. Stavamo agli strumenti fino alle 3 o 4 del mattino perché il pubblico non se ne andava. Un po’ come racconta anche Guccini in alcuni suoi pezzi».
Poi che accadde?
«Poi arrivò il circolo Wienna di Tiziano Ruffilli che lo fondò e cui la Modena musicale deve tantissimo, pensi solo alla invenzione dei Cortili con tanta musica dal vivo. Al circolo suonavamo tutte le sere davanti a un pubblico assiepato che ci stava praticamente addosso».
Com’era il rapporto con il pubblico?
«Questo è un tema che sento molto importante. Il pubblico completava alla grande una realtà molto viva e, appunto, le persone che ascoltavano erano fondamentali perché ascoltavano di tutto, non erano selettive».
In che senso?
«Trovo che oggi il pubblico abbia meno fame di musica, visto che la trova dappertutto. Fatalmente si interessa meno alla offerta dal vivo e capita spesso che tu suoni in un locale e le persone nemmeno si voltino. Oggi manca il silenzio e di conseguenza perde valore anche la controparte, il suono appunto. Provi a pensare: un tempo si andava alla ricerca di un disco e lo si ascoltava mille volte oppure lo si prendeva a prestito. Oggi col cd e con gli altri supporti è tutto diverso».
Com’è oggi il livello del jazz in Italia?
«Altissimo, siamo una delle nazioni top nel mondo e ci sono jazzisti straordinari, ma ci sono anche programmi tv come XFactor o Amici dove occorre essere capaci di ballare, cantare e suonare e in più essere fisicamente piacenti... Impossibile. E c’è un ulteriore aspetto».
Quale?
«Le giurie popolari, persone che magari non sanno di musica ma si occupano dei giudizi e allora tutto si limita a un pollice in su o in giù. Se non sono un avvocato come posso pretendere di giudicare gli avvocati? Ovvio che non si fa, nella musica invece purtroppo accade e quindi i giovani musicisti passano e vanno».
E la situazione musicale locale?
«Non mi piace esprimere pareri, ma da noi ci sono grandi musicisti: Vinicio Capossela, a Enzo Bosso, Stefano Bollani, Cesare Cremonini. Poi certo venire dopo i mostri sacri non è semplice».
Un musicista, un pianista cos’è, se lo chiede mai?
«Me lo chiedo continuamente e rispondo che occorre lavorare sulla trasmissione delle emozioni. Io spero di fare emozionare, chi suona ha questo grande obiettivo. Certo noi suoniamo per nostro piacere, ma il piacere e lo sforzo crescono se sappiamo emozionare la platea. L’arte è questo».
Le emozioni al centro di tutto.
«Per me sì, occorre trasmettere benessere perché la vita è già, di per sè, dura con i suoi su e giù. Poi non bisogna dimenticare che la sensibilità aumenta con la sofferenza».
Che significa?
«Che do valore alle cose se le ho provate e se non ho avuto momenti negativi è difficili che presti attenzione a certe emozioni. Per lungo tempo non ho potuto mangiare cioccolata, la prima volta che ho ripreso è stato magnifico. Poi però, come le dicevo, non si parla solo della sofferenza nella musica perché i momenti no per sopravvivere vanno poi abbandonati. A me piace sperare che la gente con le mie note possa stare meglio, se non si trasmette agli altri tanto vale cambiare mestiere». —
Stefano Luppi