Nell’anno corrente si contano già 50 femminicidi, quasi uno ogni 72 ore. Tutte morti per mano di mariti, compagni o ex fidanzati. L’ultimo tragico e significativo episodio coinvolge da vicino l’ambiente modenese. Il riferimento va all’assassinio di Gabriela Trandafir e della figlia Renata, uccise a colpi di fucile dal marito Salvatore Montefusco lunedì 13 giugno a Castelfranco.
Il sit in di ieri mattina organizzato dai Centri Anti-Violenza dell’Emilia-Romagna davanti al palazzo di Giustizia di corso Canal Grande nasce proprio in ricordo delle due donne. Un ricordo ancora tremendamente fresco. Alle 9 erano già tante le persone presenti sotto al tribunale, quasi tutte donne. Striscioni, cartelloni, scritte, bandiere, canti, cori e una frase, “Sorella, io ti credo”, che univano in un solo corpo tutte le manifestanti.
La prima a prendere il microfono è Elena Campedelli, presidente della Casa delle Donne contro la Violenza di Modena. Lo sguardo era intenso e la voce intrisa di rabbia e dispiacere: «Ogni anno ascoltiamo le paure e le sofferenze di quasi 6mila donne. Sono indignata per quanto accaduto. Non possiamo più tollerare che pubblici ministeri e giudici siano incuranti davanti alle violenze che arrivano loro sotto forma di denunce e carte processuali. In Italia c’è un grave problema di democrazia e rispetto dei diritti delle donne, che continuano ad essere uccise a causa di violenze e sottovalutazioni delle istituzioni. Quella di oggi – continua Campedelli – è una giornata di denuncia. Le donne avanzano degli esposti, ma questi in molti casi vengono poi archiviati. L’Italia continua a ricevere dei richiami a livello europeo e internazionale perché in questo campo è indietro e fa dei grossi errori. Oggi qui ci sono 15 centri anti-violenza provenienti da tutta l’Emilia-Romagna. Non possiamo rimanere in silenzio dopo gli ultimi femminicidi accaduti in provincia di Modena. La giustizia deve impegnarsi a fare la sua parte. Quando una donna fa una denuncia non deve essere inascoltata. Ci sono di mezzo delle vite».
Quella che i centri anti-violenza portano avanti è una lotta contro una società da loro ritenuta maschilista e patriarcale: «Vediamo tanti femminicidi poiché la maggior parte degli uomini – prosegue la presidente della Casa delle Donne contro la Violenza di Modena – crede di detenere il possesso sulle donne con cui sono stati legati sentimentalmente e quando la donna li lascia perché violenti, perché cattivi mariti o padri, vogliono firmare l’ultimo estremo gesto di possesso uccidendole. Perché cambi questa mentalità retrograda e malata i bambini devono essere educati sapendo che sono persone libere» conclude Elena.
I sentimenti in viaggio tra le donne del raduno di ieri erano non solo di rabbia e paura, ma anche di speranza, speme e ottimismo, perché quando le emozioni vengono condivise, anche quelle più brutte, provocano meno angoscia. Il motore di un cambiamento così tanto voluto procede solo quando è si va avanti in tanti. Dopo la presidente Campedelli, entra nel cuore del sit in la sua vice, Rosanna Bartolini: «Tiriamo fuori la voce e diciamo che non è più accettabile ciò che accade nelle procure e nei tribunali, in cui le denunce delle donne vengono raccolte male, considerate poco e in ultimo archiviate. Quasi il 50% delle querele per maltrattamenti vengono archiviate ed è uno dei principali motivi che disincentiva le donne a denunciare le violenze e ad andare nei centri anti-violenza. Archiviare significa fare della denuncia un atto falso. In pratica secondo i tribunali una donna su due mente. Ma raramente le donne riferiscono per intero quello che è accaduto loro. Una donna per essere creduta deve essere ammazzata. È un percorso sempre in salita per le donne che vogliono essere libere».
Infine anche spazio per un uomo, poiché quella contro i femminicidi e una concezione obsoleta possessiva della donna non è una battaglia propria solo delle donne, ma di tutti. Lui è Claudio Montagna, parte del direttivo dell’Arcigay Matthew Shepard di Modena. Con aria anche commossa esprime soprattutto disagio: «Siamo tristi perché manifestiamo per un fatto già avvenuto che ha portato alla morte di due donne a causa della pazzia di un uomo come me che pensava appartenessero a lui come degli oggetti. Mi vergogno come maschio e mi sento coinvolto come rappresentante dell’Arcigay, poiché anche i miei figli vengono osteggiati in quanto omosessuali e i casi di suicidi indotti sono tanti, come quello recente dell’insegnante Cloe a Belluno. Vedo un fallimento dello Stato che non protegge le persone che denunciano e non modifica dal punto di vista culturale la violenza maschile».l